Il pediatra e psicanalista inglese Winnicott ha coniato il termine “baby blues” ( letteralmente “bambino triste”)per definire quella sorta di malinconia che colpisce il 50-70% delle donne nei giorni che seguono il parto e che si risolve spontaneamente nel giro di una- tre settimane al massimo. Si tratta di un disturbo di lieve entità caratterizzato da pianto improvviso ed immotivato, stanchezza, irritabilità e nervosismo, labilità dell’umore, paura e preoccupazione eccessive per il neonato e paura di non essere all’altezza del nuovo ruolo di madre. La forte componente ansiosa può sfociare in problemi del sonno e dell’appetito così come in disturbi psicosomatici (frequenti le cefalee).Tenendo conto della grande frequenza della sindrome del baby blues (o maternity blues) la si può considerare non tanto una malattia quanto una reazione fisiologica dovuta al riassetto sia fisico (in particolare al brusco calo ormonale degli estrogeni) che psicologico seguente al parto. La “banalità” del quadro non deve portare alla sua sottovalutazione. Esso rappresenta infatti il collegamento tra il versante biologico e quello psicologico; tra la normalità e la psicopatologia dal momento che esso comprende, se pure in misura minore, molti dei sintomi e delle problematiche caratteristiche della patologia puerperale maggiore.
La depressione post-partum si distingue dal baby blues per durata ed entità. Si tratta infatti di un disturbo dell’umore di entità più preoccupante il cui esordio avviene entro sei-nove mesi dopo il parto, con un picco di insorgenza tra le 8 e le 12 settimane successive. L’incidenza, nei paesi occidentali , è del 10/20% e la durata varia da alcuni mesi ad oltre l’anno.
Sono considerati importanti fattori di rischio alcuni tratti di personalità quali: la dipendenza, il bisogno costante di approvazione, un fragile sentimento di sé, l’ansia di separazione, un’eccessiva timidezza nei rapporti interpersonali, oltre che la presenza di disturbi psichici nell’anamnesi personale e familiare. Altri fattori di rischio sono la mancanza di un sostegno familiare (come nel caso di ragazze madri), la presenza di disturbi d’ansia o depressivi già durante la gravidanza, l’aver vissuto eventi traumatici e stressanti nell’ultimo anno (specialmente aver subito il lutto di una persona cara), avere difficoltà abitative e finanziarie.
Bisogna distinguere due quadri psicopatologici diversi: la depressione minore e la depressione maggiore.
Nella depressione minore la sintomatologia si manifesta con depressione dell’umore associata a sensazione di esaurimento fisico, specie nelle ore serali, irritabilità, diminuzione dell’appetito, calo del desiderio sessuale, insonnia, risentimento ed ostilità e sintomi somatici di varia natura. Sono frequenti i disturbi associati di tipo ansioso nelle forme acute del panico o in quelle somatizzate così come le manifestazioni fobiche o ossessivo-compulsive. L’aspetto più tipico di questa forma riguarda l’insicurezza circa la propria capacità materna, vissuta dalle donne in modo conflittuale e colpevolizzante, che può tradursi in una eccessiva preoccupazione per il bambino e in una ostilità nei suoi confronti più o meno manifesta. In questi casi è fondamentale un adeguato sostegno psicologico alla donna che si è dimostrato utile affiancare a sedute di terapia di coppia o familiare finalizzate a dare un significato condiviso alla malattia e a fornire anche al coniuge o ai figli uno spazio di espressione e comprensione dei propri sentimenti, spesso anch’essi fortemente ambivalenti.
La sintomatologia della depressione maggiore appare più grave e persistente rispetto alla depressione minore, può essere associata a confusione ed avere un esordio acuto. L’insorgenza è frequente nel corso del primo mese dal parto con una maggiore concentrazione nella prima settimana. Presenta i sintomi dell’episodio depressivo maggiore secondo il DSM IV, con la caratteristica che la maternità e l’accudimento del bambino costituiscono il contenuto della maggior parte dei vissuti e dei deliri depressivi. Le donne che ne sono colpite possono manifestare sentimenti eccessivi e perfino deliranti di autoaccusa e di inutilità accompagnati da agitazione o rallentamento motorio. Spesso possono temere di danneggiare i propri figli, o viceversa convincersi che i loro bambini non siano mai sani, nonostante le rassicurazioni del pediatra. Questi vissuti non devono essere sottovalutati dai familiari come dai medici (medico di base, ginecologo, pediatra..) che seguono la donna ma piuttosto costantemente monitorati e segnalati ad uno specialista psicologo-psicoterapeuta che valuterà la possibilità di un intervento anche farmacologico psichiatrico.
La gravità della situazione può infatti emergere drammaticamente con un danno al bambino o un gesto autolesivo. Infatti le idee di omicidio-siucidio (il cosiddetto “omicidio per amore”) sono ricorrenti e il comportamento delle donne imprevedibile, come raccontano, aimè, i frequenti casi di cronaca.
La psicosi puerperale ha un esordio prevalentemente acuto. La sintomatologia si manifesta per lo più entro le prime due settimane- un mese dal parto ed è tale da giustificare un ricovero ospedaliero. Si possono sommare sintomi affettivi (depressione, mania o stati misti) con elementi deliranti sia congrui con il disturbo dell’umore che incongrui: allucinazioni, incoerenza, disorganizzazione del comportamento, confusione mentale. I contenuti dei deliri sono collegati all’esperienza materna e generalmente riguardano la vita e la salute del bambino, che la madre crede compromesse per causa sua, o l’appartenenza del neonato, che la donna crede scambiato con un altro non suo, o ancora deliri di negazione dell’esistenza del figlio e della maternità. La durata della malattia varia da un paio di mesi ad un massimo di sette-otto. La prognosi è generalmente buona tanto che le psicosi puerperali sono considerate particolarmente curabili e con un esito migliore delle altre forme di psicosi. L’eziopatogenesi risulta particolarmente complessa. Il rischio di psicosi puerperale è più alto nelle primipare e nelle donne che hanno avuto precedenti disturbi psichici in particolare episodi psicotici o depressivi. Sembra inoltre plausibile pensare che questa patologia sia almeno in parte biologicamente mediata e che un possibile meccanismo sia costituito da un’ipersensibilità alla dopamina indotta dalla rapida caduta degli estrogeni. Per questo e per la gravità della sintomatologia è richiesto l’intervento di uno psichiatra che valuterà la possibilità di un ricovero o di una terapia farmacologica domiciliare. Una volta risolto l’episodio sarebbe consigliabile una rielaborazione psicologica di quanto accaduto con uno psicoterapeuta soprattutto con la finalità di fornire al paziente strumenti utili a prevenire nuovi possibili episodi.
In conclusione: l’evento della maternità, seppure bellissimo, è un evento “critico” prima di tutto per la donna e poi anche per la famiglia. Il passaggio da donna a mamma; da coppia coniugale a coppia genitoriale; da figlio unico a fratello non è un passaggio automatico e può essere difficile se la donna attraversa un disturbo di tipo depressivo. E’ importante in questi casi confidarsi ed affidarsi al proprio medico curante e alla propria ginecologa per trovare un sostegno e una giusta indicazione di un valido professionista psicologo-psicoterapeuta con il quale affrontare e risolvere le proprie difficoltà.
Psicologa-Psicoterapeuta familiare